Dal PCTO al Progetto di Vita

L'esperienza di Enrico Orsolini, avvocato, papà ed esperto di disabilità.
Può raccontarci in cosa consiste il progetto sperimentale di PCTO a cui ha partecipato suo figlio?
Abbiamo sviluppato un progetto con l’Istituto Nautico “Duca degli Abruzzi” di Catania e un'azienda della grande distribuzione, per valorizzare l’attitudine di mio figlio Riccardo, con autismo di livello 3, all’ordine e alla classificazione. Prima abbiamo creato un laboratorio scolastico che simulava uno scaffale di supermercato, poi abbiamo trasferito questa esperienza in un vero ambiente di lavoro, con un PCTO strutturato su tempi lunghi (tre mesi + un intero anno scolastico), quindi ben oltre le classiche 10 ore.
Quali sono stati, secondo lei, gli elementi più positivi di questa esperienza?
Vedere mio figlio crescere in autonomia, apprendere un compito e generalizzarlo in un contesto reale. Anche i piccoli gesti di accoglienza da parte dei dipendenti del supermercato sono stati molto significativi. È stato un percorso di abilitazione, non solo di inserimento.
Ha riscontrato delle criticità o degli aspetti migliorabili nel progetto?
Sì. I tempi standard dei PCTO sono troppo brevi per ragazzi con disabilità gravi. Servono percorsi stabili e ripetuti. Inoltre, manca un collegamento concreto tra scuola e mondo del lavoro. I PCTO dovrebbero essere vere palestre di vita adulta, con obiettivi realistici ed adeguati alle persone con disabilità.
Quanto è importante parlare di “abilitazione al lavoro” piuttosto che di “inserimento lavorativo”?
È essenziale. Mio figlio non lavorerà per guadagnare, ma ha diritto a sentirsi utile e integrato. L’abilitazione permette di sviluppare competenze e mantenere relazioni sociali, evitando l’isolamento. Servono ambienti protetti ma realistici, operatori formati e formazione dei colleghi di lavoro, tempi lunghi e collaborazione tra scuola, famiglia, volontariato, pubblica amministrazione e imprese. Le associazioni locali sono fondamentali per affiancare i ragazzi e promuoverne l’inclusione.
Ci sono stati momenti in cui ha percepito una reale crescita nell’autonomia lavorativa di suo figlio?
Sì. Prima nel laboratorio, poi nel supermercato. Ha imparato le mansioni, si muove con maggiore autonomia e ha iniziato a relazionarsi con gli altri.
Come avete vissuto il passaggio post scolastico?
È una fase delicata e incerta. Il progetto ci ha aiutato ad anticiparla, ma mancano strumenti strutturati per accompagnare le famiglie. Non c’è una regia pubblica che colleghi scuola, sanità, servizi sociali e lavoro.
Cosa servirebbe per rendere questo passaggio più fluido?
Un progetto di vita attivo sin dalla diagnosi, aggiornato e condiviso tra tutti gli attori: famiglia, scuola, servizi, volontariato, mondo del lavoro. Oggi la scuola prepara a un mondo che non accoglie questi ragazzi con disabilità e le esperienze scolastiche raramente diventano opportunità reali.
Le istituzioni sono pronte a pensare a un “progetto di vita” per le persone autistiche?
Purtroppo no. Si parla di “rete”, ma spesso resta solo teoria. Le famiglie sono lasciate sole, e non tutte hanno le risorse per affrontare questa sfida. Lo Stato dovrebbe garantire figure stabili di supporto. Come genitore e avvocato, mi batto per il riconoscimento dell’abilitazione come percorso legittimo e per superare la logica del solo inserimento lavorativo retribuito. Il volontariato e il Terzo Settore possono essere un ponte tra scuola e lavoro, promuovendo percorsi graduali e sostenibili.
Se potesse lanciare un messaggio a chi sta iniziando questo percorso con un figlio autistico, cosa direbbe?
Di non arrendersi. È un cammino difficile, ma i risultati arrivano. Con tempo e dedizione, ogni ragazzo può trovare un’attività che dia soddisfazione e lo faccia sentire incluso. Nessuno deve essere condannato all’isolamento.